Exursus di Franco Di Carlo, grande autore di Divinafollia Edizioni, su Leopardi e la poesia del Novecento

Il Problema Leopardi (il grande dimenticato) nel rapporto con la poesia del Novecento – Lettura di Leopardi da Ungaretti agli ermetici, la Ronda: De Robertis, Cardarelli, la Restaurazione, Umberto Saba – Lettura del dopo guerra: da Pavese, Moravia, Fortini Pasolini fino a Zanzotto e la neoavanguardia e Sanguineti e la nuova ontologia estetica – A cura di Franco Di Carlo

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Domenico Morelli ritratto di Giacomo Leopardi

Di solito, quando si dice Ungaretti, si pensa subito all’opera di scardinamento espressivo e di rivoluzione del linguaggio poetico compiuta dai suoi versi e dai suoi scritti teorico-critici nei confronti della tradizione letterària italiana (dal ‘200 all’800 romantico) che continuava ad avere i suoi maggiori rappresentanti in Carducci e, per certi versi, in Pascoli e D’Annunzio, legati anch’essi, nonostante le indubbie novità della loro poetica e del loro linguaggio espressivo, ad una figura di letterato «ossequioso» nei confronti dell’«ufficialità» (letteraria e non): un’immagine, in fondo, ancora borghese e tardo-romantica, provincialisticamente sorda alle novità letterarie europee. In realtà, il rischio di considerare la poesia di Ungaretti come esclusivo effetto di un atteggiamento esplosivamente distruttivo (tipico dell’avanguardia à la mode, italiana e non) rispetto alle forme poetiche proprie della tradizione, ha una sua giustificazione, non solo di ordine psicologico-sentimentale, ma storico-letteraria: l’immediatezza espressiva e l’essenzialità della «parola» ungarettiana, balzano subito agli occhi come caratteristica peculiare della prima stagione creativa di Ungaretti, dal Porto sepolto (1916) all’Allegria (1931). Tuttavia già in quest’ultima, in un periodo di «apparente sommovimento di principi», si può notare la presenza, anche se in nuce (che si svilupperà meglio in seguito, nel Sentimento, 1933), di un retaggio di temi e di espressioni che fanno pensare, nonostante la scomposizione del verso tradizionale, al recupero di un ordine, esistenziale e stilistico ad un tempo.

La guerra, con i suoi miti e la sua esperienza traumatica,

aveva fatto nascere il canto dell’umanità, proprio dell’Allegria: la guerra, in realtà, si era presentata al «soldato» Ungaretti ben diversa da come l’avevano vaticinata e idoleggiata la retorica dannunziana e le rumorose gazzarre futuriste. Ungaretti sentiva, finita ora la guerra, il bisogno di «ritrovare un ordine» (e siamo già nel periodo del Sentimento, dal ’19 in poi) «da ristabilirsi nel senso della tradizione, incominciando […] dall’ordine poetico, non contro, cioè, ma dentro la tradizione anche metodologicamente». Pur rappresentando, perciò, l’Allegria la prima fase della «sperimentazione formale» di Ungaretti, ed avendo la rottura del verso tradizionale come scopo principale quello di evidenziare, alla maniera dei simbolisti e di Poe, le capacità analogiche ed evocative della parola, sentirla, cioè «nel suo compiuto e intenso, insostituibile significato», nasce da una condizione umana di precarietà come quella del «soldato». In realtà, già dal ’19 nasce in Ungaretti la preoccupazione di ricreare, con quei suoi versicoli franti e spogliati di qualsiasi discorsività, un tono ed una misura classicamente evocati e organizzati: è la perfezione del settenario, del novenario e dell’endecasillabo, raggiunta mettendo le parole una accanto all’altra e non più una sotto l’altra (si pensi per questo alle osservazioni critiche del De Robertis sulla formazione letteraria di Ungaretti).

In una intervista del ’63 Ungaretti dirà

a proposito della sua poesia degli anni post-bellici: «E poi gli endecasillabi bisognava imparare a rifarli… quindi l’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale». E ancora: «L’endecasillabo nasce subito, nasce dal ’19, nasce immediatamente dopo la guerra», come esigenza di un «canto» con cui partecipare dell’esempio dei classici, da Petrarca a Leopardi, filtrato attraverso l’esperienza mallarméana e baudelairiana. Questo recupero di un ritmo e di una metrica, di una musicalità, nuove ed antiche ad un tempo, sorgeva già da quegli anni terribili della guerra e del dopoguerra, come necessità di un equilibrio interiore e stilistico insieme. Era questo il periodo de «La Ronda»: della volontà di ristabilire, e in politica e in letteratura, quell’ordine turbato dell’esperienza della guerra. E qui balza subito agli occhi l’indiscutibile influenza mediatrice della rivista di Cardarelli e Bacchelli sul «secondo» Ungaretti, quello del Sentimento, sul suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria italiana.

Il «ritorno all’ordine»

Sono gli anni, quindi, in cui emerge la necessità di un «ritorno all’ordine», da ripristinare nel senso della tradizione, attraverso il recupero di temi, di modi espressivi, propri di un mondo passato, ma rivissuti e riscoperti in una rilettura moderna e originale, personalizzata. Si trattava per Ungaretti di «non turbare l’armonia del nostro endecasillabo, di non rinunciare ad alcuna delle sue infinite risorse che nella sua lunga vita ha conquistato e insieme di non essere inferiori a nessuno nell’audacia, nell’aderenza al proprio tempo». In realtà il cosiddetto «neoclassicismo» non farà mancare il suo peso determinante nel segno e nel senso di un’arte predisposta «verso un ordine tradizionalmente tramandato e che solo negli schemi è stato sovvertito». Ungaretti rompe soltanto gli schemi e la disposizione della trama espressiva e non le strutture formali e tematiche interne alla poesia, recuperandone, così, i valori «puri» e misteriosi per via retorico-stilistica e tecnico-metrica. «Al di là», quindi, della «retorica» dannunziana e futurista, dei toni «dimessi» dei crepuscolari, del sentimento «languido» del Pascoli, si trattava di eliminare, attraverso l’apparente liquidazione della tecnica tradizionale, «le sovrastrutture linguistiche che impacciavano il folgorare dell’invenzione», riuscendo ad attingere, a livello metrico, ritmico-musicale, una «parola» che miracolosamente riacquistava nella sua rinnovata collocazione una sua interna e misteriosa valenza, non solo e non tanto metrica. Quest’opera riformatrice del linguaggio poetico era attuata da Ungaretti non tanto mediante il ripudio dei versi canonici tradizionali «quanto piuttosto nella loro disarticolazione e nel loro impiego di nuovo genere, che comporta lo spostamento degli accenti dalle loro sedi tradizionali, la scomparsa della cesura, l’uso della rima scarso e asimmetrico, il valore assegnato alle pause».

Tale operazione di demolizione, oltre che a obbedire ad un’esigenza formale di immediatezza, si risolve, sul piano dei contenuti «in un nuovo modo di interrogare sé stessi, di scoprirsi nella storia e nell’universo». Partendo, quindi, da uno studio approfondito della tradizione, Ungaretti riuscirà nelle sue prove successive (dal Sentimento al Taccuino) a ricomporre, nel senso di una restaurazione stilistico-tematica, ciò che prima aveva in apparenza distrutto: si avrà, perciò, l’utilizzazione di quegli strumenti formali e retorici, propri della più alta tradizione lirica italiana, da Jacopone a Leopardi. Anche in questo, quindi, Ungaretti segue l’insegnamento della lirica più antica (si pensi al «vago» del Leopardi e alla sua teoria sull”«eleganza») filtrato attraverso la lettura dei simbolisti, di Nietzsche e Bergson. Pur scorgendo la necessità di un ritorno a ricerche di stile che non ignorassero i modelli del passato, Ungaretti rimane sostanzialmente legato ad un’esperienza, quella simbolista e irrazionalista, quasi del tutto «estranea» alla rivista di Cardarelli, che, tuttavia, aveva collocato gli scrittori italiani di fronte alle responsabilità organiche del loro linguaggio poetico.

Ungaretti, tornato a Roma nel ’21,

sente in pieno in bisogno di un approfondimento letterario, culturale e ideologico, sul solco segnato da «La Ronda», della propria poesia e poetica, del proprio gusto critico-estetico, in un rinnovato interesse per Leopardi e Petrarca. Su queste basi avveniva rincontro di Ungaretti con i rondisti e soprattutto con Cardarelli: si trattava, nonostante i contributi di scarso valore della breve collaborazione con «La Ronda» e gli interventi ufficiali sul rapporto Ungaretti-«La Ronda» (la lirica Paesaggio nel ’21, un articolo su Dostoevskij nel ’22, la recensione di A.E. Saffi dell’Allegria nel ’19), di un’influenza che aveva le sue necessità stilistiche e spirituali in un ricongiungimento alle fonti della grande lirica italiana, attraverso il magistero, formale per Cardarelli, esistenziale e vitale per Ungaretti, di Leopardi. Fu tuttavia, già dal ’19, ma poco prima della nascita de «La Ronda», che Ungaretti, in un tempo per certi versi ancora «avventuroso», dalla sua prima stagione creativa, auspicava il sorgere di «un’arte nuova classica», attenta agli esempi della tradizione, riconosciuti in Petrarca e Leopardi. D’altra parte rincontro con Cardarelli non si originò ne si sviluppò sul falso binario di un malinteso estetismo, di un culto formale e stilistico fine a se stesso, ne nell’uso, perfetto ma arbitrario, di parole «vaghe», ma al contrario, sul filo di un leopardismo attento al recupero di una zona ancora inesplorata di Leopardi, esaltato da Cardarelli per la sua rarefatta eleganza espressiva: la zona della «memoria», della «durata» e dell’«innocenza».

È il valore metafisico e ontologico del ricordo e del desiderio

inappagato di un mondo senza peccato, che entra risolutamente in gioco, il fatto umano ed esistenziale e non solo meramente tecnico-formale e metrico del linguaggio poetico. Si trattava, quindi, per Ungaretti di scoprire in Leopardi un ermetico ante litteram, attraverso Petrarca, i cinquecentisti, il Barocco, fino al D’Annunzio alcyonico, a Pascoli, Campana, Onofri, Saba, i simbolisti e i post-simbolisti. In realtà la rivalutazione di Ungaretti della tradizione fu tutta particolare e sostanzialmente autonoma da quella rondista: non subì, infatti, i pericoli di un arido meccanicismo, fondandosi, invece, sul recupero della memoria e del senso della durata, come uniche àncore di salvezza di fronte alla decadenza della civiltà e della cultura occidentali. L’unica affinità possibile sul piano psicologico-sentimentale, tra Cardarelli e Ungaretti, per quel che riguarda il loro leopardismo, forse risiede, come suggerisce il Lonardi, in quel «primato […] del tono, che hanno imparato da Leopardi: tono sedato nel primo, battuto, eccitato, nel secondo». Il progetto «neoclassico» di «un ritorno all’ordine», si richiama, in Ungaretti, alla «coscienza critica che agisce per entro la poesia di Leopardi. Si tratta, in realtà, di un leopardismo e/o «neoclassicismo», attenti sì alla voce antica dei nostri maggiori, ma che non rinuncia, come fa notare ancora il Lonardi, «all’ana-grafe francese e al suo stesso normandismo d’origine», il Leopardi di Ungaretti, al cui studio dedicò l’intera sua vita e che considerò «fra i geni terreni quello ch’io venero di più», «sarà la forza — aggiunge Ungaretti — perfettamente autonoma, italiana, e insieme perfettamente coniugabile alla Francia moderna, di una nostra rivoluzione poetica»; una forza «buia e visionaria, capace di ringiovanire l’universo». E più che de «La Ronda», si deve fare il nome di Cardarelli, come di colui che esercitò maggiore influenza sul classicismo ungarettiano, teso «verso il recupero dell’originale incoerenza espressiva […] a furia di memoria».

Helle Busacca, Dino Campana – grafica di Lucio Mayoor Tosi

Ritorno al Tasso e al Petrarca?

Non si tratta, quindi, come fa notare il Petrucciani, «di classificare il «ritorno» del già eterodosso Ungaretti al Petrarca al Tasso al Leopardi, come un recupero delle audacie del ribelle entro l’antico grembo formalistico della più canonica tradizione alto-lirica italiana soprattutto nel ripristino di un endecasillabo rinnovato, autre», ma di inserirlo in un clima storico-culturale, permeato di esplosive novità e di modernità, ma anche di crisi di valori, aperto a qualsiasi esperienza e soluzione, carico di volontà di ricostruzione più che di un mito del «ritorno», innestato su un contesto socio-culturale «italiano» e tradizionale. Questo lavoro di recupero che si svilupperà già nell’Allegria, e forse ancora prima, fino al Sentimento (1933), II Dolore (1943), La Terra Promessa (1950), II Taccuino (1960), sino a Dialogo (1968), è «testimoniato da un lungo lavoro di lima e di varianti, pur manifestando ancora in sé vivaci contraddizioni e esiti contrastanti, propri del resto della natura umana e più ancora di quella di un poeta». La preoccupazione di Ungaretti, in quegli anni post-bellici (e qui s’avverte l’influenza della «Ronda» considerata, già dall’ottobre del ’23 da Ungaretti per la sua ricerca stilistico-formale e la sua riscoperta del «classici» italiani), era quella di riconquistare attraverso la «perfetta» coincidenza tra la tensione ritmica del vocabolo e la qualità espressiva», un’unità verbale inseguita fin dai tempi del Porto sepolto, nonché di conferire al verso quelli funzione e quella funzionalità che gli «era stata assegnata […] dalla natura fonica delle nostre parole e della tradizione sintattica ed armonica tramandata alle forme da secoli d’una esperienza impareggiabile».

E sull’esempio dei classici bisognava ricostruire il verso italiano e la sua «purezza iniziale», attraverso un’elaborazionc poetico-critica che doveva tener conto di ogni possibile mediazione all’interno della struttura allusivo-simbolica del linguaggio poetico, mediante riferimenti stilistico-formali mutuati direttamente dalla grande tradizione lirica italiana, da Jacopone a Leopardi. Infatti, Ungaretti dirà nel ’35: «…non cercavo il verso di Jacopone, o quello di Dante, o quello di Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello di Leopardi: cercavo il loro canto. Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario. non il settenario del talaltro che cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua sostanza attraverso i secoli […], era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di questa terra disperatamente amata».

Era dunque, l’endecasillabo,

di cui l’esempio più alto era rappresentato da quello di Leopardi, che bisognava liberare da «ogni rimbombo, ogni lusso, ogni esteriorità», sull’esempio di Leopardi, rendendolo «silenzioso» ricomporlo nel suo equilibrio ritmico-tonale e metrico-musicale, mettendone in rilievo «le proporzioni e gli accordi, le simultaneità, le simmetrie». L’endecasillabo, dice Ungaretti, «l’ha nel sangue ogni vero poeta italiano. E l’ordine poetico e naturale delle parole italiane». Questo recupero della tradizione si svilupperà in Ungaretti parallelamente nei suoi interventi teorico-critici e nella sua produzione strettamente lirica, dall’Allegria alla Terra Promessa: saranno soprattutto i nomi di Leopardi, col suo senso della durata (Allegria e Sentimento) e di Petrarca col suo senso della memoria e il Barocco con la sua poetica dell’«assenza» (Il DoloreLa Terra PromessaIl Taccuino) ad avere un ruolo decisivo nella formazione della poesia, della poetica e del gusto critico-estetico di Ungaretti. Su basi europee (quella del surrealismo, del futurismo dei vari Marinetti, Soffici, Palazzeschi; dell’esempio di Laforgue, Lautréamont, Rimbaud, Baudelaire, Apollinaire, Breton; dell’esperienza fìlosofica che partendo da Bergson, attraverso Nietzsche, i mistici, arriva fino a S. Agostino, Pascal, Platone e gli Evangeli) avvenne, perciò, il recupero della tradizione, da Dante a Petrarca, al «suo» Leopardi (non solo e non tanto quello dello Zibaldone e delle Operette morali, idoleggiato dai rondisti, ma quello dei Canti e degli Ultimi frammenti), da Tasso a Manzoni, al Barocco, dal petrarchismo al marinismo, fino allo Stilnovo, a Cavalcanti a Jacopone.

I prelievi novecenteschi dell’opera leopardiana interessano sia il tessuto unitario, logico-storico del linguaggio con tutti i suoi piani di strutturazione interna (scansione e struttura ritmiche, divisione strofica, misura sillabica, andamento della rima, unità metrico-semantica), sia l’articolazione dei contenuti, dei temi, dei motivi, e quindi, i modi stilistici e le problematiche e le concezioni corrispondenti: siamo arrivati, come si vede, al leopardismo ungarettiano, e a quello degli ermetici, dei «poeti puri», da Quasimodo a Luzi, da Gatto a Bigongiari, a Parronchi.
Sembra che tocchi a Leopardi, in area ermetica, lo stesso destino che toccò al Petrarca: la poetica petrarchesca della «memoria», quella leopardiana della «ricordanza», sono i risvolti di un comune sentire, di un solo modo di porre il problema letterario ed estetico.

V. Majakovskij, B. Pasternak

Il ritratto derobertisiano di Leopardi

fornì agli ermetici la base critica e metodologica di partenza per un’analisi dell’opera del Recanatese, condotta al livello «puro» dell’espressione verbale, della «pa-fola» come mezzo magico di conoscenza, come volontà di superamento, per mezzo di una misura espressiva classicamente evocata e organizzata, di un linguaggio troppo incline ai dati scabri e scarni dell’esistenza fenomenica. Il Leopardi caro ad Ungaretti, in realtà, fece da esempio e da modello all’esperienza «classica» degli ermetici: fu certo un Leopardi dal forte sapore simbolista e mallarméano (si ricordi che Ungaretti ebbe un’educazione letteraria ed una formazione ideologica e culturale di stampo nettamente francesizzante: si pensi al suo accostamento a Rimbaud, Baudelaire e poi alla sua frequentazione con Apollinaire, Valéry, Péguy, Fort, Breton) filtrato attraverso la lettura di Petrarca Nietzsche e di Bergson (concezione del tempo come flusso ininterrotto e continuo di esperienze interiori), lo studio del Barocco, di Gòngora, di Tasso, di Michelangelo della «decadenza» e della crisi della civiltà e della cultura occidentali, valore creativo e costruttivo della «memoria», il «sentimento della durata»).

Il ritorno a Leopardi in chiave ermetica

Da queste premesse è facilmente ricostruibile il leopardismo proprio della poesia e della poetica ermetiche, di quei lirici «puri», «nuovi» come li definì Renato Serra nel ’20 dalle colonne della «Voce»: come valore di rottura rispetto all’eloquenza dannunziana, all’ingenuo infantilismo del Pascoli, all’oratoria carducciana, ai toni dimessi dei crepuscolari, a quelli retorici e altisonanti dei futuristi, in favore di una nuova concezione della vita e dell’arte, in vista di una ricerca di una «parola» intesa come segno misterioso e religioso, «indefinibile» (avrebbe detto Leopardi) del reale, di una poesia come funzione simbolica del linguaggio, fatto originario che nasce dall’intimo, dal «segreto» dell’animo: un linguaggio, come afferma Ungaretti, «innocente» e «vago», allo stesso modo del Leopardi (valore dell’analogia, della metafora, valenza polisemica e polisemantica del segno verbale). Si spiega, così, il ritorno a Leopardi di poeti come Luzi (con la sua profonda ansia morale ed esistenziale, per molti versi simile a quella di Ungaretti, che, tra l’altro, aveva dato di Leopardi un ritratto «cristiano», fortemente caratterizzato in senso religioso); Betocchi (col suo impegno etico ed umano, con la sua ansia metafisica, con la sua fede come ricerca della verità); Bigongiari (con la sua analisi capillare dei Canti, delle Operette morali, dello Zibaldone, incentrata sulla messa a fuoco, seguendo la scia ungarettiana, del carattere tonale dei valori fonico-evocativi del linguaggio verbale leopardiano, della sua poetica della «memoria» e della «noia», del rapporto col Petrarca, del sentimento del «patetico», della «durata», come momento progressivo dall’idillio iniziale al canto finale, alla poetica della «presenza», della «partecipazione»); Parronchi (col suo evidenziare l’aspetto simbolico-visivo della poesia e della poetica leopardiane, ponendo l’accento sul suo nuovo concetto d’infinito, come immagine evocata per mezzo dell’assenza stessa del momento associativo della «visione»: Parronchi istituisce un paragone con la teoria berkeleyiana della «veduta indiretta»); Gatto (col suo ritratto di Leopardi fortemente caratterizzato sul piano espressivo, ma soprattutto ideologico, come esempio di una presenza vitale irresistibile e impetuosa, antiletteraria, in un certo senso, viva, impegnata, palpitante). E allo stesso modo va giudicato l’atteggiamento verso Leopardi dei «teorici» dell’Ermetismo: Contini, Bo (col suo porre l’accento, evidentissimo nell’opera leopardiana, sul rapporto, sperimentato e vissuto in prima persona, tra la letteratura e la vita, fra la resa artistica in sé e per sé, e resistenza dell’uomo, come partecipazione continua al suo flusso dinamico, al suo ininterrotto divenire, come movimento, integrale dell’essere); Macrì (col suo considerare Leopardi un oppositore del Romanticismo, la sua poesia come frutto anche intellettuale, logico, discorsivo, come parto della mente oltre che creazione irripetibile e singolare dell’esperienza sensibile e intuitiva del poeta).

Come si vede fu l’Ermetismo che, seguendo l’esempio cardarelliano, la scia derobenisiana e l’insegnamento ungarettiano, portò alla messa a fuoco di un Leopardi uomo oltre che poeta, con l’unicità della sua esperienza esistenziale e creativa insieme, come espressione vivente di un rapporto, inevitabile, di negazione e di rifiuto, col mondo e colla realtà esterna, sentita come estranea all’uomo e al poeta: Leopardi, in questo senso, diviene il nume tutelare della nuova poesia italiana; la sua figura, considerata nel suo dinamico e continuo farsi, nel suo stato perpetuo di contraddizione, come «energia» è stata la scoperta che ha fatto del poeta recanatese «uno dei momenti centrali del discorso poetico novecentesco, uno dei nodi della nostra modernità poetica» (Bigongiari), Fu l’Ermetismo, dunque, a concepire «un’eredità moderna per l’opera leopardiana» (Bigongiari).

Czeslaw Milosz, W.H. Auden

Un caso a parte rappresentano Saba e Montale:

il poeta di Uccelli (1951) e Mediterranee (1957) ci colpisce per il suo leopardismo (i biografi sabiani riferiscono che a sedici anni leggeva e studiava l’opera del Recanatese) intimistico, prosastico, umile (ma non crepuscolare o dimesso), senza scatti, alieno dai preziosismi di una «parola» metafisicizzante e «segno» del mistero, cara ai neosimbolisti nostrani. Un leopardismo (per certi versi «idillico», ma nel senso, s’intende, leopardiano, e non in quello deteriore teorizzato dal Croce) che fondava le sue radici nel culto (non certo intenzionale ma spontaneo) di una tradizione che vedeva in Manzoni, Dante, Petrarca, Parini, oltre che, naturalmente, nel Leopardi, saltando a pie’ pari l’esperienza di certo D’Annunzio (non quello, però, del Poema Paradisiaco e della Francesca), di Carducci con la sua oratoria, nonché il baudelairismo «maledetto» ma teologizzante dei «lirici puri», e il formalismo dei rondisti, i capisaldi ideali e storici ad un tempo, di una scelta più morale che letteraria soltanto, di una responsabilità prima umana ed esistenziale che puramente estetica (in questo senso il leopardismo sabiano è riconducibile, per certi versi, a quello «impegnato» e antiretorico proprio degli scrittori della prima «Voce»).

Lettura di Montale del Leopardi

D’altra parte l’incontro con Leopardi di Montale avviene in maniera indiretta, diversamente da quanto accade per Ungaretti e Saba: la poesia montaliana, infatti, scabra, scarna, essenziale (soprattutto quella del primo Montale), «pertosa» (per certi versi memore di quella del conterraneo Sbarbaro), priva di compiacimenti letterari, non consolatoria, ma nuda, antiidilliaca, legata, insomma, più al finito e al particolare che all’infinito, ha fatto pensare a qualcuno (cfr. W. Binni, Montale nella mia esperienza della poesia, in «Letteratura», genn.-giugno I960) ad una certa affinità con l’ultimo Leopardi (quello della Ginestra), un Leopardi agonisticamente in lotta col mondo circostante ma non con gli uomini, affratellati nel comune destino di morte e di dolore, un Leopardi dal piglio eroico ed umanitario, lontano, insomma, in maniera categorica, da ogni «amor del vago» (anche se Montale, almeno all’inizio, privilegia un giudizio sull’opera leopardiana che si riavvicina, per certi versi alla tesi crociana del poeta «idillico», «leggiadro», dalla vita strozzata (si veda, per questo il saggio montaliano Stile e Tradizione apparso nelle colonne del «Baretti» gobettiano il 15-1-1925). La «parola» di Montale, «semplice» e insieme «disperata», superava, sul piano ideologico più che formale, il pessimismo cosmico leopardiano, almeno per intensità esistenziale e forza drammatica: con Montale, in realtà, la poesia di Leopardi appartiene, di diritto, all’800 più che al ‘900; il suo volto, dal nostro punto di vista, è rivolto più al passato, al secolo dei romantici, che al presente, al «nostro» secolo. Leopardi, non è, perciò, riconducibile, secondo Montale (si veda il suo giudizio sull’opera leopardiana contenuto nel volume di saggi critici Auto da fé, Milano, Mondadori, 1966) a quell’asse ideale storico-letterario, Petrarca-Leopardi, inaugurato dall’ermetismo e da Ungaretti: ce lo suggerisce, tra l’altro, la sua formazione culturale e letteraria tipicamente «anglosassone» (si pensi al Browning, a Eliot) per certi versi vicina più alla compatta filosofia dantesca che a quella, poliedrica e variamente caratterizzata, del poeta dei Canti.

Calvino, Pasolini

La nuova lettura del Leopardi nel dopo guerra

In realtà, esauritesi con la guerra, con la sua tragica, alienante, disumanità, il mito ermetico di un Leopardi maestro della «parola» magica ed allusiva, poeta dalle suggestive dimensioni fonico-evocative, dalle metafisiche evocazioni memoriali, prendeva quota, in verità più nelle proposte critiche (è di questi anni l’indagine, variamente indirizzata, del Binni, del Luporini, del Sapegno e del Timpanaro) che nei riscontri operati direttamente sul corpo vivo della poesia, un’immagine di Leopardi che vedeva nella poetica «progressiva», «eroico-contestativa», «antiidillica», per così dire, «impegnata», del Recanatese, il suo punto di forza propulsiva, il suo valore di rottura, in sede sia ideologica sia propriamente espressivo-formale, nei riguardi della poesia e della cultura prebelliche.

Leopardi perdeva, così, i suoi connotati simbolici, ermetici, «puri»; Quasimodo (quello della seconda fase postermetica, col suo nuovo impegno sociale e politico) faceva, perciò, di Leopardi il maestro «impareggiabile» (in quanto atteggiamento nei confronti del mondo, in sede ideologica, quindi) della nuova concezione e funzione della poesia, come fatto partecipativo, come responsabilizzante esperienza di vita e d’azione. Pavese ne rifiutava (ne è l’esempio, tragico, la «nuova»_ poesia di Lavorare stanca, 1936, e specialmente l’opera diaristico-autobiografìca Il Mestiere di vivere. Diario 1935-1950) il facile pessimismo dalle risonanze cosmiche e metafìsiche, da lui definito «dottrina di consolazione». Moravia intravvedeva nella «lezione» di Leopardi un insegnamento non tanto e non solo puramente letterario e formale; la sua esemplarità e attualità, diceva «è soprattutto contenuta nell’eroica conseguenza con la quale lo scrittore sviluppava i propri temi fino a note incredibilmente alte e perigliose, senza riguardi né verso il mondo sonnolento e accademico in cui si trovava a vivere, né, soprattutto, verso sé stesso, cui tale conseguenza costava dolore e sangue» (Cfr. di Moravia Estremismo e letteratura, in «La Fiera letteraria» 25 aprile 1946, ora in L’uomo come fine, Milano, Bompiani, 1964).

Franco Fortini nelle colonne del «Politecnico»

vittoriniano (cfr. il saggio La leggenda di Recanati, nn. 33-34, 1946) rivendicava, in polemica col Flora e con gli ermetici, la «non purezza» della poesia leopardiana («seppe scrivere dei versi brutti; seppe essere contraddittorio», dice Fortini) e rifiutava il «mito» di Leopardi, di ascendenza ermetica, come espressione massima di «vita solitària e di ascesi letteraria», e ritrovava nell’impegno «reale» e quindi passibile di «corruttibilità» e di errore, della sua lirica, un nuovo modo di lettura, più «aperto», dell’opera del Recanatese.
In questo senso deve essere considerato l’avvicinamento a Leopardi di poeti, «nuovi» come E.F. Accrocca (con i suoi «innestogrammi») e L. Ruffini, nei quali la presenza di Leopardi è filtrata attraverso l’esperienza, ideologica ed estetica dell’Ungaretti critico di Leopardi (non si dimentichi che Accrocca fu allievo di Ungaretti all’Università di Roma durante il periodo di insegnamento di Storia della Letteratura ital. mod. e cont., a partire dal 1943).

Antonio Sagredo, Ubaldo de Robertis

Zanzotto e Pasolini

Fa storia a sé la posizione nei confronti di Leopardi di poeti come Zanzotto e Pasolini, i quali impersonano, con la loro opera, la decadenza dell’esemplarità leopardiana in area novecentesca, almeno quella intesa sul piano puro del magistero formale, del modello tecnico-espressivo, ereditata da «La Ronda» e in parte dall’ermetismo. Per primo la «lezione» di Leopardi è possibile percepirla in una zona di «privilegio», come atto perpetuo di negazione e di assoluta «disintegrazione», come «atto della disperazione», come «necrosi» (Cfr. di Zanzotto, A faccia a faccia, in «Questo e altro», n. 4, 1963, che è il resoconto di un dialogo avuto con C. Bo). Per Pasolini il rapporto con Leopardi perde di valore se inserito in una mediazione condotta a livello puramente tecnico-formale, simbolico-espressivo di tipo rondista-ermetico: semmai, più che il nome di Leopardi, col suo linguaggio indefinito ed ambiguo, polivalente, col suo «codice» fonico-evocativo, si potrà fare quello di Pascoli e quindi, parlare di influenza pascoliana (si ricordi, tra l’altro che Pasolini elaborò un saggio compiuto su Pascoli: Pascoli (1955), ora in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, I960) sulla poesia pasoliniana (quella in lingua italiana, naturalmente) colla sua «parola» definita, netta, precisa, dai contorni chiari e sia pure «impressionisticamente» delimitati. Se si pensa all’elaborazione da parte di Pasolini di una nuova «libertà stilistica» (Cfr. il saggio La libertà stilistica, in «Officina», nn. 9-10,1957, ora in Passione e ideologia, cit.) con la sua proposta sperimentalistica nel segno di un recupero che non può essere meramente letterario, si comprende come il nesso Leopardi-Pasolini sia istituibile soltanto sul piano caratterizzante l’atteggiamento del poeta nei confronti del mondo e della realtà (naturalmente come rifiuto e negazione, allontanamento, estraniazione, alienazione): Leopardi appare, così, più come modello ideologico da interpretare e da seguire, che l’esemplare perfetto di un’ideale metafisica dell’animo, o peggio ancora, di una poetica neoformalistica fortemente riduttiva, intesa, cioè, come progetto restaurativo di certi valori codificati, espressivi e non, andati perduti dopo l’esaurirsi e il venir meno della esperienza ermetica, con l’insorgere, drammatico, di problematiche (da qui nasce il neorealismo) più concrete e meno teologizzanti, quali potevano sembrare, in fin dei conti, quelle nate in area ermetica. (Ci sia permesso rinviare ai nostri interventi su Pasolini; Il viaggio infernale di P. e La «filosofia visiva» di P., in «Punto interrogativo», n. 1, genn. 1979 e n. , 2, febbr. 1979, e in «Poetica», a. I, n. 7-8, nov.-dic. 1989, oltre che, naturalmente, ai recenti e fondamentali contributi di G. Zigaina e N. Naldini, oltre che di A. Zanzotto. In particolare cfr. G. Zigaina, Pasolini tra enigma e profezia, Venezia, Marsilio, 1989).

In realtà, facendosi strada, verso la metà degli anni ’50, una concezione della poesia intesa come progetto, come continua verifica dei propri mezzi e modi espressivi e comunicativi, come eterna reinvenzione stilistica, contenustica e programmatica (basti ricordare l’azione culturale di riviste come Il Politecnico vittoriniano e Officina con Leonetti, Scalia, Pasolini e Roversi) nel senso di un ininterrotto rinnovamento linguistico ed espressivo, Leopardi appariva ai giovani poeti come il modello eroico-contestativo, progressivo e non più stoico-passivo nel senso voluto dagli ermetici, da porgere alle nuove generazioni della poesia italiana. E il recupero avveniva per Pasolini tramite l’esperienza umana, culturale, ideologica e passionale del Gramsci «carcerato», per Leonetti attraverso la mediazione critica e intellettuale di De Sanctis. Rifarsi a Gramsci e a De Sanctis significava superare e, in sostanza, rifiutare i tardi epigoni dell’ermetismo, col suo Leopardi intimista, «puro» e in fondo disimpegnato, col suo leopardismo barocco, più letterario e pieno di equivoci (fatta eccezione per Ungàretti, Luzi e Gatto) che sinceramente vissuto e quindi valido anche sul piano storico-esistenziale.

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La neoavanguardia e Sanguineti

Da quanto detto si capisce perché il movimento della Neoavanguardia (I Novissimi e il Gruppo 63, soprattutto con Giuliani Porta e Sanguineti) rifiuta ab initio l’uso, tradizionale, del linguaggio poetico, col suo alto grado di «contemplatività», col suo iniziato andamento «argomentante», intriso di concettualismo e intellettualismo, iniziato secondo Giuliani da Leopardi. Rifiuto, quindi, della tradizione e ancor di più di una concezione della poesia legata ai modelli vuoti del passato letterario italiano: la poesia, per la Neoavanguardia, è espressione alienata e alienante, schizofrenica e schizomorfa, della condizione dell’uomo nella società contemporanea. Di qui la negazione integrale, e totale, per la sua inattualità, del linguaggio istituzionalizzato (grammatica, sintassi, morfologia, metrica, lessico): ma in questo contesto distruttivo e nullificante, la figura e l’esempio di Leopardi, dice Porta, non appare più così lontano come in un primo tempo sembrava: diventa possibile e verificabile sul piano più ideologico che espressivo: il poeta recanatese rappresenta una sorta di «personaggio-uomo» in contrasto globale con la sfera, esterna a lui, della realtà fenomenica, disumanizzante; con la società circostante «sorda distratta e cinica». In questo senso Leopardi poteva apparire a Sanguineti «il primo poeta della nostra letteratura… che affronta questo problema moderno dello stile, che patisce per primo questa impossibilità del soffrire» (cfr. di Sanguineti Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1961, pag. 86): è l’esempio dello stile meditativo ed eloquente dello Zibaldone che riflette, aggiungiamo noi, nell’opera poetica, le contraddizioni laceranti della sua epoca e del suo tempo storico, per molti versi simile al nostro.
D’altra parte non si può fare a meno di accennare al leopardismo dei poeti delle ultime generazioni: da V. Maria Rippo, col suo Leopardi rudelliano e corazziniano, classico e insieme moderno (si veda per questo il nostro Il «discorso» poetico di V.M. Rippo, Milano, IPL, 1982 e il recente ponderoso e doveroso contributo critico di C. Di Biase) a Dante Marna, col suo Leopardi dal volto tassiano, pasoliniano ed eliotiano, poundiano, borgesiano (cfr. F. Di carlo, Gli opposti segni. Saggio su D.M., Cavallino di Lecce, Capone Ed., 1988, con esaustive indicazioni bibliografico-critiche e teorico-metodologiche e L. Reina, D.M., Valverde (CT) – Roma, Pellicanolibri, 1988), fino ad arrivare e/o risalire a E. Fracassi, L. Giaconi, S. Solmi, (i dialetti «antichi» e «moderni», «vecchi» e «nuovi»), V. Clemente, C. Di Leo, M. Pinori, F. Costabile, R. Di Biasio, L. Calogero, G. Barberi Squarotti, I;. M. Palonza, E. Di Giamberardino, G. Mannacio, A. Cini, S. Pigini, N. Falzolgher, E. Tavilla, A. Rosselli, G. Bemporad, L. Manzi, R. Pagnanelli, E. De Signoribus, F.P. Memmo, G. De Marco, N. Naldini, C. Ferrucci, A. Onorati, S. Ramat, A. Berardinelli, per non parlare di certi scrittori stranieri, come Ch. Morgenstern, W. Benjamin, Rilke, H. James, Musil, E. Canetti, Cienfuegos, Unamuno, L. Mavillis, P. Raissis, J. Eekhout, K. Vassallo, Starobinski, etc. e si potrebbe continuare, ma non certo all’«infinito». E, da ultimo, la lettura di Leopardi in chiave della «nuova ontologia estetica» proprio sulle pagine della rivista di letteratura on line L’Ombra delle Parole.

Laboratorio 30 marzo Franco Di Carlo e Giorgio Linguaglossa

Franco Di Carlo con G. Linguaglossa Laboratorio di poesia, Roma, 30 marzo 2017

Franco Di Carlo (Genzano di Roma, 1952), oltre a diversi volumi di critica (su Tasso, Leopardi, Verga, Ungaretti, Poesia abruzzese del ‘900, l’Ermetismo, Calvino, V. M. Rippo, Avanguardia e Sperimentalismoil romanzo del secondo ‘900), saggi d’arte e musicali, ha pubblicato varie opere poetiche: Nel sogno e nella vita (1979), con prefazione di G: Bonaviri; Le stanze della memoria(1987), con prefazione di Lea Canducci e postfazione di D. Bellezza e E. Ragni: Il dono (1989), postfazione di G. Manacorda; inoltre, fra il 1990 e il 2001, numerose raccolte di poemetti: Tre poemetti; L’età della ragione; La Voce; Una Traccia; Interludi; L’invocazione; I suoni delle cose; I fantasmi; Il tramonto dell’essere; La luce discorde; nonché la silloge poetica Il nulla celeste (2002) con prefazione di G. Linguaglossa. Della sua attività letteraria si sono occupati molti critici, poeti e scrittori, tra cui: Bassani, Bigongiari, Luzi, Zanzotto, Pasolini, Sanguineti, Spagnoletti, Ramat, Barberi Squarotti, Bevilacqua, Spaziani, Siciliano, Raboni, Sapegno, Anceschi, Binni, Macrì, Asor Rosa, Pedullà, Petrocchi, Starobinski, Risi, De Santi, Pomilio, Petrucciani, E. Severino. Traduce da poeti antichi e moderni e ha pubblicato inediti di Parronchi, E. Fracassi, V. M. Rippo, M. Landi. Tra il 2003 e il 2015 vengono alla luce altre raccolte di poemetti, tra cui: Il pensiero poetante, La pietà della luce, Carme lustrale, La mutazione, Poesie per amore, Il progetto, La persuasione, Figure del desiderio, Il sentiero, Fonè, Gli occhi di Turner, Divina Mimesis, nonché la silloge Della Rivelazione (2013)